Il dialetto valentanese è caratterizzato, come in altri paesi limitrofi dell’Alto Lazio, dall’abuso dell’articolo e dei sostantivi utilizzati in forma femminile plurale (le faciole, le cavalle, le Carabbignere…), nonché dalla presenza di una quantità di sostantivi e di aggettivi piuttosto arcaici, spesso provenienti dal mondo agricolo: “Quanno fue all’età de garzoncello… via a Maremma! E me toccò falle de tutte le maniere; me toccò fa tutte le mestiere: ‘l biscino, ‘l simentarello, ‘l bifolco, ‘l buttero… T’arzave a la mattina che ‘l sole ‘n co’ n’ se vedeva e staccave quann’era già calato… Appresso a quelle bove ciò camminato tant’anne e adò magnato quintale de porvere. Ma toccava a facce, sinnò a casa pativeno la fame...”
Si possono ricordare espressioni del tipo: pijjà vvia ggiù pe’ le scale; mamanco stesse a fa le ruciavelle; a fforza de spentiche e de capitognele; ‘n ce se chiappa più gnènte!, metta tutto a panzapellaria; aggettivi efficaci come: diciarioso, spozzarato, rasposo, e la terna: gajjoffo, ghiotto e mardivoto (aggettivi ovviamente usati anche nelle forme al femminile!). Avverbi come: mellì, meqquì o mecchì, mellà, mellaggiù. Verbi come abbosià, minchionà, ‘nciampicà; sostantivi come gavozzelo, sbucamerea. Ancora l’uso del sostantivo diantene (per diavolo) che viene spesso associato alla verziera (l’avversaria) la “nemica” per eccellenza delle prediche medievali.
E poi i canti che accompagnavano il lavoro, quasi per alleviarne la fatica, ma sempre con quel sentimento amaro di Maremma:
E’ l’aria de la Maremma
la rovina de la gioventù,
e le ragazze d’oggigiorno
‘l colore nun ce l’hanno più.
A la mattina co’ la luna,
a la sera co’ le stellle
ce le vònno levà la pelle
ma ‘n je le volemo dà.
Il sole m’affatto l’occhietto
me l’ha detto che deve calà
jarisponne ‘l fattoretto
fajielo fare ‘n artro pezzetto
jarisponne ‘l sotto fattore
daje la via che cianno raggione…
Poi la grande tradizione dei poeti a braccio che, per generazioni, hanno cantato, con le gesta dei grandi miti, anche le tante storie di briganti, specialmente quella di Tiburzi “re del Lamone, re della Maremma“.
Le “storie” sono raccontate in endecasillabi, a rima alternata, raccolti in quartine. Non potevano mancare le tradizionali ottave che in Maremma costituiscono, da sempre, il canto dei poeti a braccio sulla metrica di quelle classiche dell’Ariosto e del Tasso (molti contadini e pastori mandavano a memoria l‘Orlando furioso e la Gerusalemme liberata!). L’improvvisazione dell’ottava, composta da sei versi a rima alternata (A-B-A-B-A-B) e gli ultimi due a rima baciata (C-C), consente ai cantori di rispondersi l’un l’altro con la regola però di utilizzare la rima del verso di chiusura per aprire la nuova ottava. Nella passione dell’agone poetico che si instaura, specialmente nel canto delle cosiddette ottave a contrasto (un poeta deve vantare ciò che l’altro deve denigrare), si utilizzano gli ultimi due versi per la cosiddetta martellata finale. Ciò serve sia per consegnare all’altro poeta una rima di difficile aggancio ma, soprattutto, per concludere l’ottava in maniera scanzonata e ironica. E anche qui Pietro ci consegna una lunga serie di cuoriosi e interessanti “contrasti” e lo fa proprio nello stesso spirito di tanti antichi cantori.
In tempi recenti, come era prevedibile, il dialetto locale ha risentito del “romanesco”, soprattutto per quanto concerne gli articoli (er), che non era presente nella parlata locale.
Nel 1870 il maestro Cesare Corradi scrisse, per suo diletto, un breve brano “dialettale”. Per nostra fortuna l’Autore ha trascritto il significato di alcuni termini arcaici che, altrimenti, non avremmo oggi compreso. In un caso, in particolare, utilizza il termine “ciola” senza darne la spiegazione, in quanto in quel periodo perfettamente comprensibile. Questo termine è scomparso dalla nostra parlata da lungo tempo, ha un suo preciso significato, letteralmente trascrivibile come “pecora da scarto”. Immaginiamo quando il termine veniva utilizzato con riferimento ad una persona, o a una donna in particolare!
Ovviamente esistono anche proverbi che hanno nella tradizione e nel lessico locale la loro precisa collocazione: Pecora che sbèla perde ‘l boccone!; Vale più ‘n’acqua tra aprile e maggio che Salomon con tutto ‘l carreaggio; ‘N carcio nel culo fa camminà tre passe!; Se ciae ‘n cioccaccio mettelo là pe’ marzaccio… e si potrebbe andare all’infinito.
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I più anziani ricordano, e in qualche caso ancora improvvisano, le sestine o le rime dei canti che accompagnavano il lavoro “a Maremma”. Diversi studi ed anche alcuni dischi sono stati pubblicati proprio su questo genere, simpaticissimo il compact disk di Leonella Lelli, «Maremma Innamorata»
Ecco, riportati da un lavoro di Romualdo Luzi, gli stornelli e i ritornelli della canzone popolare «Le Valentanese»